relazione Di Capua - CEDIDO Viterbo

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relazione Di Capua

Giovanni Di Capua :  Da De Gasperi al 1968. I primi vent'anni della storia dell'Italia repubblicana
(Lezione introduttiva al Corso di formazione alla politica, Palazzo Papale - Viterbo, 21 febbraio 2014)

Indice
Premessa                              
Assemblee e congressi prima della liberazione     
Fine della funzione dei Cln                   
De Gasperi al potere                     
Il segno degasperiano                        
Grande artefice della democrazia repubblicana.           
Con Fanfani la Dc cambia volto.                 
La divaricazione fra Piazza del Gesù e Quirinale.          
La rivolta dei dorotei.                       
L'avvento di Moro alla segreteria.                  
L'avventura tambroniana.                    
Le convergenze parallele preparatorie del centro-sinistra      
Napoli '62 e vicende connesse.                     
La IV legislatura                          
Saragat al Quirinale                    
La preparazione dell' alternanza socialdemocratica         


Premessa

I primi vent'anni della storia repubblicana italiana che andiamo ad esaminare partono da un a quo logico: le elezioni del 18 aprile 1948, che diedero ad Alcide De Gasperi la maggioranza assoluta e provocarono nel Fronte popolare delle sinistre unite una profonda delusione. Ma non si capirebbero quella grande affermazione democristiana e quella sonora sconfitta delle sinistre, ove non si tenesse conto degli antecedenti politico-sociali. Che non risalgono neppure al tempo della liberazione dell'intero territorio dall' occupazione nazista del 25 aprile 1945, come comunemente si afferma anche in un accademismo sbrigativo.
Si possono spiegare le vicende italiane alla luce della crisi militare e politica del fascismo. E, quindi, occorre avere percezione del forte arretramento delle truppe italo-tedesche da tutti i fronti in cui erano impegnate: Africa Orientale, Africa Settentrionale, Grecia, Albania, Russia e paesi balcanici da queste occupati. Fu in quel momento - fine 1942 - che l'Italia si risvegliò dalla "lunga vigilia" (come la definiva De Gasperi) di una coscienza democratica sopita ma non doma. Fu in quel contesto che presero corpo le prime formazioni democratiche a livello clandestino.
Fu con la costituzione del Comitato delle democrazie, costituito da De Gasperi per la nuova democrazia cristiana, da Ivanoe Bonomi per il demolaburismo e da Giuseppe Romita per il socialismo riformista, che si diede vita ad un primo coordinamento unitario delle forze democratiche, decise a preparare una classe politica per il postfascismo. Dopo un iniziale rifiuto, al Comitato aderirono anche gli azionisti e i comunisti, i quali si consideravano entrambi le uniche forze in grado di cambiare radicalmente l'Italia e di rappresentare la maggioranza degli italiani.
Quel Comitato esercitò pressioni sulla stessa monarchia per indurla a pronunciarsi per una pace separata rispetto alla Germania. Si prospettò come un movimento d'azione determinante per un'autoliberazione nazionale dal condizionamento militare germanico. Fu prevenuto dall'iniziativa alleata dello sbarco in Sicilia del luglio 1943. Si trovò al centro dei colloqui politici che emersero spontaneamente in Italia all' indomani del colpo di Stato sabaudo che spodestò Mussolini. Si sarebbe trasformato in Comitato di liberazione nazionale (Cln) il 9 settembre, dopo la fuga del re e di Badoglio a Brindisi e la conseguente occupazione militare germanica di gran parte della penisola. Nonché dopo la proclamazione della Repubblica Sociale di Salò, e l'autoliberazione di Napoli da parte di scugnizzi e soldati allo sbando che avevano lasciato le postazioni cui erano preposti nell'Italia del nord.
Allora sì che, sostanzialmente, ebbe inizio la resistenza. Che trovò impegnati piccoli gruppi di ribelli meridionali con molte vittime (come a Matera e a Barletta), mentre i soldati italiani concentrati (cioè tenuti in campi di concentramento dagli inglesi) fremevano per concorrere alla liberazione dei territori centrali e settentrionali assieme agli alleati, che stavano calpestando le loro terre. Infatti si era sotto una duplice occupazione straniera: l'angloamericana nel meridione; la germanica in tutte le altre regioni.
Gli italiani avevano scambiato la defenestrazione di Mussolini con la fine della guerra. Spontanee erano state le manifestazioni popolari negli ultimi giorni del luglio 1943. Ma l'annuncio radiofonico "la guerra continua" demoralizzò quanti ritenevano che ormai l'incubo dei bombardamenti fosse finito e fosse automaticamente rinata la libertà. Il governo Badoglio fu inflessibilmente repressivo verso manifestazioni che potessero apparire fornite di anarchismo. I soldati del re spararono sulle folle inneggianti alla libertà a Bari e a Reggio Emilia, lasciando sul terreno migliaia di vittime.
I tedeschi disposero attorno a Roma un solido controllo militare concentrato a Viterbo e a Frascati per tenere sottoscacco Roma. Le popolazioni, decimate dei suoi uomini e giovani migliori rimasti bloccati in prigionia lontano, sui fronti che si andavano sempre più disfacendo, reclamavano pane e lavoro. Che nessuno assicurava. Salvo gli americani: i quali in Sicilia organizzarono un ufficio regionale del lavoro che reclutava braccia (sottraendole allo storico caporalato agrario) per le prime opere di ricostruzione viaria, necessaria agli alleati per procedere verso il continente. I soldati italiani che non erano riusciti a raggiungere le loro abitazioni, venivano invece tenuti ristretti in campi di concentramento in varie località dell' isola, continuando ad essere considerati nemici.
Una tale situazione lasciò inalterata una reciproca diffidenza fra gli alleati e i tedeschi e le popolazioni italiane. Che, nella loro stragrande maggioranza, si tennero a lungo lontane dalla politica e dai partiti, ritenendoli tutti responsabili sia delle divisioni del prefascismo che della disastrosa esperienza del partito unico fascista. Enorme, defatigante fu perciò il compito dei nuclei che avevano ricostruito degli embrioni di partito, peraltro ufficialmente vietati tanto dal governo Badoglio che dai comandi alleati nelle regioni liberate del Mezzogiorno, che dai comandi tedeschi in tutto il resto del paese.
La polizia della Repubblica sociale di Salò fece il lavoro sporco (che i germanici si rifiutavano di portare avanti) di individuare i nuclei familiari ebrei, di rastrellare qualsiasi antifascista anche tiepido. Sicché l'Italia, oltre all'occupazione straniera, fu oppressa da una guerra interna fratricida che non avrebbe avuto mai fine.

Assemblee e congressi prima della liberazione

Malgrado una palpabile separatezza fra popolazioni e politica, riscontrabile anche nelle scarse informazioni radio e nei primi quotidiani che cominciavano ad uscire nelle edicole su autorizzazione del Pwb (Psychological warfare branch) alleato, i partiti iniziarono a proporsi come soggetti attivi di un nuovo regime democratico. La guerra continuava. Quella intestina provocava serie preoccupazioni nei settori moderati (cioè la maggioranza delle famiglie). Ma i partiti, benché vietati, vennero allo scoperto: con assemblee costitutive; prese di posizione pubbliche; coordinamenti organizzativi; individuazione dei primi nuclei dirigenti; polemiche sempre più veementi verso la Kings ltaly del quadrilatero Brindisi-Bari-Taranto-Lecce e il suo governo Badoglio privo della metà dei suoi ministri abbandonati frettolosamente a Roma.
Nell'arco temporale compreso fra il settembre 1943 e il 25 aprile 1945, si svolsero qualcosa come 54 incontri politico-sindacali di grande rilievo, che compresero congressi di partito: azionisti, democristiani, comunisti, socialisti, liberali, democratici liberali, cattolici comunisti, demolaburisti, separatisti, sindacati e aclisti.
Di tutte tali assemblee, dimostranti che la politica dei partiti, in connessione col ricorso ad una inedita unità sindacale, fortemente voluta da De Gasperi e venuta meno soltanto dopo l'attentato a Togliatti del luglio 1948, si distinse il Congresso di Bari del Cln di fine gennaio 1944. Che segnò l'effettivo atto di nascita della rinnovata democrazia italiana, che vide protagonisti Benedetto Croce, Carlo Sforza e il giovane democristiano napoletano Ugo Rodinò, figlio del più noto Giulio, che fu tra i ricostruttori di un partito d'ispirazione cristiana nei territori tirrenici; come Natale Lojacono lo fu a Bari per quelli adriatici. I riferimenti ai due mari hanno senso perché lungo le due direttrici si sviluppò la manovra a tenaglia delle truppe inglesi (cui a fine 1943 finalmente furono aggregate le truppe regie italiane) e di quelle americane (che entrarono per prime a Roma, proseguirono per Siena e Firenze e si attestarono lungo la linea immaginaria Viareggio-Rimini, superata la quale, nel volgere di poche settimane, si giunse alla liberazione dei territori settentrionali, ufficialmente il 25 aprile 1945.
La Resistenza non fu, purtroppo, un fatto unitario. Già nel Cln centrale si ebbero sin da subito scontri durissimi fra due schieramenti: azionisti, comunisti e socialisti, da una parte; democristiani, demolaburisti e liberali, dall'altra. I contrasti precipitarono in una crisi formale all'indomani dell' attentato gappista di via Rasella, estraneo alle decisioni del Cln ma approvato dal comunista Giorgio Amendola. Per l'intera guerra di liberazione il Cln e i governi da esso espressi (cioè i due ministeri Bonomi) provvidero a pagare, con le tasse versate dalle popolazioni del sud e poi del centro, i costi dei lanci di armi, munizioni, alimenti e vestiario ai partigiani combattenti nell'alta Toscana, in Liguria, in Piemonte, Lombardia e Veneto. Alcuni di quei lanci - o per scorretta comunicazione fra alleati e nuclei partigiani oppure a causa dei forti venti appenninici - caddero nelle mani dei tedeschi.

Fine della funzione dei Cln

Non intendo soffermarmi sulle giornate poco radiose di fine aprile 1945 e sugli scempi di piazzale Loreto che lo stesso Ferruccio Parri definì "macelleria messicana". Vi accenno soltanto perché quei fatti testimoniarono due diverse e contrapposte concezioni della guerra di liberazione: quella delle brigate comuniste di Longo e Secchia, che combattevano per fare, dell'Italia settentrionale, una delle repubbliche sovietiche coordinate con la Jugoslavia di Tito e l'Unione Sovietica di Stalin; e quella di tutte le altre formazioni, politicizzate o no (e costituivano la maggioranza reale dei combattenti, malgrado le diverse vulgate rimaste nei libri di storia), che combattevano per fare l'Italia libera dall' occupazione nazista, cioè un'autentica guerra d'indipendenza. Lo stesso Togliatti, nel II consiglio nazionale del Pci del 6/8 aprile 1945, sollecitò i comunisti del nord a rispettare la svolta di Salerno del compromesso fra Pci e monarchia sabauda; e ad abbandonare la lotta contro i partigiani di altro colore, al fine di poter giungere presto alla costituzione di un nuovo governo dell'Italia riunita e a guida di esponenti preferibilmente espressivi dei partigiani del nord, intesi però come esecutori delle direttive del Cln di Roma con la mediazione del Cln Alta Italia.
Occorsero cinquanta giorni di discussioni, anche violente, fra i partiti del Cln per costituire il primo governo postliberazione. I socialisti pretendevano il potere esclusivamente con uomini del nord e di sicura fede repubblicana. Pertini giunse a sparare una raffica di mitra contro la facciata della villa nella quale il luogotenente Umberto alloggiava dopo essersi recato al nord per un dovuto saluto alle truppe regie che s'erano battute per la liberazione di Bologna e del resto dei territori settentrionali ormai abbandonati dai tedeschi.
Togliatti era molto cauto; e consapevole che il Pci era una minoranza ancora poco robusta ovunque, salvo che dove aveva imposto dei commissari politici alle brigate combattenti, a loro volta superate dalle formazioni partigiane e dal retroterra civile, anche cattolico, che aveva sostenuto la causa dell'indipendenza nazionale. Gli azionisti pensavano che solo un uomo dall' alto prestigio come Parri potesse rappresentare l'intero fronte partigiano e politico.
De Gasperi contestava ai socialisti la presidenza del consiglio perché giudicava la Dc più forte e più radicata in tutto il paese; ma non contrariava le ambizioni azioniste e, al contempo, riteneva che l'uscente presidente Bonomi meritasse una riconferma: almeno per la fase transitoria che avrebbe condotto - in tempi non remoti e connessi soprattutto alle successive ristrutturazioni elettorali dei comuni - alle prime elezioni libere dopo quelle del 1921.
Si giunse a Parri, in presenza di una palese diffidenza alleata che gli italiani fossero pronti per un autogovemo democratico. Inoltre gli alleati registravano con preoccupazione due fenomeni distinti ma entrambi pericolosi. Primo: le insorgenze secessioniste nel separatismo siciliano; nella penetrazione francese sino a Ventimiglia sulla costa ligure e sino a Ivrea, in territorio alpino e aostano; nonché di iniziative politiche centrifughe dei reparti comunisti sul -confine orientale e la Venezia Giulia, in mani titine. Secondo: il disarmo dei partigiani, molto urgente, perché né poteri dello Stato italiano né vigilanza dei comandi alleati riuscivano a contenere le spregiudicate iniziative di cosiddetti "tribunali del popolo" che continuavano ad emettere sentenze di morte a carico di ex fascisti, ma anche di avversari politici dei comunisti più focosi e persino di altri partigiani non inclini alle trame dei commissari politici di stampo stalinista. I liberali chiedevano a gran voce che si liquidasse ogni residuo di Cln locali, ora ch'erano stati sconfitti tanto la Repubblica sociale che gli occupanti tedeschi, arresisi agli alleati prima del fermo di Mussolini in fuga verso la Svizzera.
Il governo Parri nacque perché non esistevano altre alternative e urgeva rassicurare gli alleati che i politici italiani fossero più responsabili dei partigiani dediti ad un anarchismo sfrenato, presuntuoso e assassino. Era composto dagli stessi partiti della coalizione esarchica emersa ai tempi del Comitato delle democrazie (poi Cln); era partitico nel senso che era ben dosata fra i sei partiti la distribuzione dei ministeri. Parri si rinchiuse in una stanzetta del Viminale che gli serviva come studio e abitazione, convinto di poter affrontare l'enormità dei problemi sul tappeto con meri atti volontaristici, cercando di raccogliere tutte le istanze che gli avanzavano gruppi isolati di ex partigiani; ma trascurava il problema numero uno: quello della profonda crisi econoomico-finanziaria del paese e della mancanza di lavoro; cui si era aggiunta la disoccupazione della gran massa di ex partigiani che, deposte le armi, ora erano sul lastrico.
Scontri violentissimi avvenivano in consiglio dei ministri fra liberali, i quali pretendevano una politica di rigore che valesse a bloccare una progressiva inflazione; e il comunista Scoccimarro che, invece, quale misura risolutiva, invocava un cambio della moneta, abbandonando la lira (inflazionatissima e deprezzata rispetto alla sterlina) e creando una nuova carta moneta, essendo problematico immaginare di ricorrere a coniazioni auree della Banca d'Italia.
Poi c'era il problema, apparentemente irrisolvibile, degli approvvigionamenti alimentari, delle infrastrutture e comunicazioni, della distruzione di buona parte delle città italiane. Il razionamento era giunto a livelli ancora più duri di quelli del periodo bellico. Il mercato nero dilagava e dettava le sue leggi economiche usuraie e discriminatrici. La fatiscenza dello Stato favoriva l'esistenza dei Cln locali (composti di massima da esponenti di sinistra che non avevano dato neppure un'ora alla lotta partigiana), mentre urgeva dare agli alleati la dimostrazione di saper gestire le istituzioni pubbliche.
Si cominciò col riordinare i comuni con uomini spesso indicati dagli alleati. Venne accolta la proposta De Gasperi-Brosio di dare vita ad una consulta nazionale, rappresentativa delle realtà politiche ma anche economiche, sindacali ed ex partigiane, che avesse la parvenza di un parlamento, benché non eletto, ma di nominati d'intesa fra i sei partiti di governo e quelli che restavano fuori dell'esarchia. Pur non avendo grandi poteri, ma appunto solo una funzione consultiva, di suggerire soluzioni a livello ordinamentale, la consulta, inaugurata il 25 settembre 1945, esercitò le funzioni di un parlamento anomalo di nominati, Che, però propose un sistema elettorale per svolgere le prime consultazioni democratiche; e formulò le procedure per l'attuazione del referendum istituzionale, scendendo sino ai dettagli del passaggio transitorio dalla monarchia alla repubblica, in caso di vittoria popolare di quest'ultima rispetto al vecchio regime.

De Gasperi al potere

Contestato dalla popolazione a Napoli e soprattutto a Palermo; sollecitato dal Pci a "svegliarsi"; invitato dai Cln locali a riconoscerli; con una situazione economica sempre più appesantita; Parri, posto sotto accusa particolarmente dai liberali, cadde. Lo scontro dentro l'esarchia fu violentissimo. Il PIi minacciò di ritirarsi dalla coalizione. Finì col prevalere il buonsenso democristiano. Dopo aver composto un forte contrasto fra socialisti e liberali, De Gasperi diede vita ad un governo di coalizione esarchica, assumendo per la prima volta la Presidenza del consiglio, che praticamente avrebbe tenuto per sé e per la Dc sino ai primi di agosto del 1953.
De Gasperi fu il primo cattolico a diventare Presidente del consiglio. Continuò a mantenere la segreteria del partito sino al settembre 1946, passando quindi il testimone al suo vicesegretario storico Attilio Piccioni, impegnandolo ad assegnare alla Dc una funzione di partito di "popolo minuto"; di massa ma di opinione; di ispirazione cristiana ma autonomo, non clericale; saldamente democratico; aperto alla collaborazione con le formazioni laiche in certezza di democrazia; ancorato ai principi e alle regole delle grandi democrazie occidentali, con una preferenza - già esplicitata da Guido Gonella - per la democrazia americana della Dichiarazione di Filadelfia del 1776 e non per il rivoluzionarismo francese della conquista della Bastiglia del 1789, dalla quale discendevano tutte le altre formazioni politiche italiane, dai comunisti, ai socialisti, ai liberali, ai fascisti.
De Gasperi volle la Dc come partito democratico plurale e antitotalitario. Perciò non considerò mai il fascismo come unico modello di autoritarismo. Anche nella collaborazione esarchica, considerò il comunismo come un modello totalitario intriso di ateismo. Rispettò la collaborazione nella lunga fase di transizione, lasciando alla libera volontà dei cittadini la scelta del modello ordinamentale preferito. Già nelle elezioni amministrative della primavera 1946 tali distinzioni si manifestarono diventando un discrimine della lotta politica italiana. De Gasperi respinse le "mani tese" di Togliatti nel 1944, nel 1946 e. soprattutto, nel 1947, quando, costituendo il Cominform, l'Unione Sovietica impose ai partiti comunisti di Francia e Italia maggiore impegno rivoluzionario internazionalista e minore tendenza ad alimentare il parlamentarismo borghese.
Soltanto allora, in coincidenza con le seconde elezioni amministrative di Roma, che liberarono il Campidoglio da una maggioranza di sinistra, seguita dai Qualunquisti come seconda forza e con la Dc soltanto terza nella graduatoria dei consiglieri comunali, la Chiesa di Pio XII riconobbe che la Dc di De Gasperi costituiva l'unico baluardo reale alla penetrazione comunista in Italia; che progrediva col sostegno di grandi corporazioni operaie; di organismi di massa giovanili e femminili; col supporto di "partigiani della pace" che parevano invece continuatori delle tendenze più intransigenti, e non indipendentistiche, del resistenzialismo.
Al I congresso di Roma dell' aprile 1946, i congressisti applaudirono a lungo Guido Gonella per la sua relazione sul progetto democristiano per l'Assemblea costituente; Enrico Mattei per la sua infaticabile opera di "generale partigiano"; l'esito del referendum interno che aveva dato una schiacciante vittoria all'istanza repubblicana. Al II congresso di Napoli del novembre 1947, dopo la nascita del Cominform, dossettiani e gronchiani si proposero come alternativa a De Gasperi; ma il fondatore del partito prevalse nettamente col suo progetto per la I legislatura, che sarebbe nata col voto del 18 aprile 1948. Al III congresso di Venezia del giugno 1949, De Gasperi parlò di terzo tempo sociale; affidò a Mariano Rumor il compito di svolgere la relazione principale; nel suo discorso, invitò gli inquieti dossettiani a "mettersi alla stanga": cioè a discettare come e quanto volevano, ma contestualmente lavorando regolarmente per il partito, onde renderlo sempre più popolare e forte.

Il segno degasperiano

Il partito De Gasperi non voleva svilupparlo su fondamenta ideologiche (come faceva Togliatti col Pci), ma su basi ideali e assieme agganciate con le realtà sociali. Era fermo nel rivendicare l'autonomia della Dc: non soltanto in linea di distinzione rispetto alla Chiesa coi suoi svariati movimenti di Azione cattolica. Voleva una Dc autonomista rispetto allo Stato, col quale non ci si doveva confondere anche se, per mandato elettorale, occorresse gestirlo: con correttezza, in alleanza coi laici, mai con integralismi che già erano costati troppo all'Italia negli infiniti conflitti fra guelfi e ghibellini, per secoli. Spiegava che un partito di popolo non poteva che propugnare programmi per il popolo e difendere interessi del popolo nelle istituzioni. E istituzioni, per De Gasperi, non erano soltanto quelle sociali (comuni e regioni) o le parlamentari, ma anzitutto la famiglia; i luoghi di lavoro e di elaborazione; quelli culturali (la scuola inferiore e superiore, le università: libere e non rimesse unicamente allo Stato, coi suoi diritti ma anche coi suoi obblighi verso la collettività nazionale). Per questo, fra l'altro, assieme a Mortati, Piccioni e Moro, De Gasperi propose in Costituente un Senato delle regioni e degli interessi, totalmente diversificato dalla Camera, istituzione essenzialmente politica, rimanendo però battuto da una convergenza fra destre e sinistre, che invece decisero per un bicameralismo tanto perfetto da essere più d'ostacolo che d'aiuto ai processi legislativi.
Sin dalla proclamazione della Repubblica De Gasperi operò indefessamente per una pacificazione nazionale. Per questo appoggiò l'amnistia generale, pur consapevole ch'essa non serviva solo a cancellare migliaia di processi a carico di ex fascisti, quanto soprattutto a impedire molti procedimenti contro partigiani assassini che non si erano fermati dinanzi ad alcun avversario, neppure dinanzi a parroci come don Umberto Pessina, della parrocchia di San Martino Piccolo, vicino a Correggio, provincia di Reggio Emilia, consumato il 18 giugno 1946. Occorreva chiudere la guerra fratricida (ma, purtroppo, gli assassini politici proseguirono) e cercare di risanare la frattura fra repubblicani e monarchici. Per questo De Gasperi accolse l'idea di eleggere come capo provvisorio dello Stato un ex monarchico, Enrico De Nicola, che non era certo un baciapile. E per l'intero lavoro costituente lasciò che fossero i democristiani di recente conio a dare manforte ai più esperti Mortati e Ambrosini, perché l'impronta della Dc rimanesse nell'ispirazione della carta costituzionale.
La pacificazione fu la preoccupazione di De Gasperi sia come Presidente del consiglio (e riguardò qualsiasi tipo di conflitto sociale interno) che come Ministro degli esteri (cercando di riaprire relazioni pacifiche coi vincitori del conflitto e fra potenze vincitrici e potenze sconfitte in Europa).
De Gasperi non contestò l'operaismo dei comunisti; ma difese ad oltranza il lavoro delle braccia (cioè del bracciantato agricolo prevalente nella struttura economica nazionaIe) e il lavoro della mente (cioè di artigiani, impiegati, liberi professionisti, uomini della scuola e intellettuali). E soffrì per il persistente dissidio che ebbe con De Nicola, quando questi sposò il più vieto nazionalismo delle destre e l'incauto neutralismo delle sinistre, coalizzate contro la linea degasperiana sul trattato di pace e ricorrendo a quel "doppio binario" che caratterizzò per anni la posizione delle sinistre: solidali nel governo, oppositrici nelle piazze.
Come già Sturzo, De Gasperi, sin dal primo dopoguerra, concepì la politica estera come una dominante, una stella d'orientamento per la politica interna. Sosteneva che, dopo due guerre mondiali disastrose anche per i vincitori, occorreva uscire dalla logica del nazionalismo colonialistico che s'era protratto da Crispi a Mussolini; e si dovesse, invece, ritrovare lo spirito originario della Società delle Nazioni e raccogliersi tutti attorno ad una comunità pacifica mondiale all'interno della quale si potessero comporre i conflitti regionali: la futura Onu. Enorme rilievo De Gasperi dava all'europeismo come strumento di pacificazione definitiva fra Germania e Francia, specie con riguardo agli opposti interessi sulla Rhur. La coincidenza di primi ministri cattolici in Italia, in Francia e nella Germania occidentale veniva considerata da De Gasperi come un segno della storia, che non necessariamente si ripeteva nei suoi tragici errori e poteva, invece, ritrovarsi, per la prima volta, pacificamente unita.

Grande artefice della democrazia repubblicana

Il 18 aprile implicò sicuramente una scelta storica fra Occidente ed Oriente. Lo comprese la Chiesa che, consapevole d'aver commesso non pochi errori nel ventennio del fasci-nazismo europeo, scese apertamente in campo a favore della Dc, utilizzando nel modo più opportuno lo strumento delle preferenze. Lo comprese la maggioranza degli italiani, inclusi quelli di parte laica, che non cedettero ad una clericalizzazione dello Stato e fecero credito a De Gasperi, nella maniera più assoluta e convinta, d'essere l'unico leader di statura internazionale in grado di confermare gli equilibri democratici senza alterazioni. E De Gasperi, avendolo già precisato con la sua politica e con i suoi impegni preelettorali, vinse per tutti, comunisti compresi, evitando loro di fare la fine dei partiti fratelli dell'Est europeo.
Sopratutto De Gasperi lo dimostrò con gli atti successivi. Poiché rifiutava l'assolutismo dello Stato e credeva fermamente nell' autonomia della politica e del pluralismo delle istituzioni, egli affermò il dovere civico della Dc di perseverare nella politica delle alleanze; e nel rifiuto dei governi monocolori, invece richiesti tanto dai dossettiani che dalla destra clericale, il famoso "partito romano".
Lo si capì allora in casa democristiana; se ne è avuta prova di recente con autorevoli pubblicazioni, che i "professorini" non solo auspicavano una politica sociale più avanzata, ma stavano progettando la costituzione di un secondo partito cattolico, di sinistra, in concorrenza con la Dc. Così come è noto che, nell'aprile 1952, i Comitati Civici di Luigi Gedda, benedetti da Pio XII, coinvolgendo nel disegno Sturzo, tentarono la costituzione di un blocco anticomunista per il comune di Roma, all'ultimo secondo scansato con un'abile manovra del ministro dell'interno Mario Scelba.
Malgrado il ricorso a governi monocolori, De Gasperi difese ad oltranza la sua linea tipica delle alleanze democratiche, valevoli sia in sede nazionale che locale. Ma andò oltre: anche se non in maniera esplicita. Accettò la discussione, impostagli dai partiti laici minori nel 1953, di abbandonare la proporzionale in favore del maggioritario: a condizione di un quorum non inferiore del 50 per cento + 1 dei voti; anche per prospettare, per il futuro, una alternanza al potere fra cattolici e laici. In teoria De Gasperi pensava ad una alternanza coi socialisti, come accadeva in Europa. Di fatto, quell' alternanza rimase affidata alla capacità di Saragat di raccogliere consensi alla sua sinistra: obiettivo che la socialdemocrazia italiana non avrebbe mai concretamente raggiunto.
Certo De Gasperi non poteva immaginare che i partiti che aveva salvato nella I legislatura tenendoli stretti nella sua maggioranza parlamentare ed anche nella coalizione di governo, una volta non scattato il maggioritario, avrebbero abbandonato il tradizionale rapporto con la Dc, obbligando De Gasperi a costituire - lui custode dei governi di coalizione - un monocolore, che fu bocciato dalla camera nel luglio 1953, concludendo l'era centrista.
Il centrismo non fu affatto, come taluni ancora oggi sostengono, una lunga fase immobilistica; bensì l'unica, nella storia repubblicana, sino ai nostri giorni, nella quale furono realizzate alcune significative riforme di struttura: la riforma tributaria di Vanoni, anticipatrice di uno schema di sviluppo precisato al IV congresso di Napoli del giugno 1954, appena in tempo perché De Gasperi potesse fare un discorso storico sui notabili e sulla funzione lungimirante che aveva avuto la "sua" Dc; la riforma agraria con l'abbattimento dei latifondi nelle regioni meridionali e la bonifica delle aree depresse del Fucino, della Maremma e del Delta Padano; la riforma Ina-Casa, che in pratica concesse a impiegati e salariati l'opportunità di comprare le proprie abitazioni col contributo pubblico; la introduzione della Cassa del Mezzogiorno, a cominciare dai "Sassi" di Matera, che cambiò il volto seicentesco dei borghi e delle comunicazioni viarie meridionali, con relativa diminuzione dell'enorme divario con il centro-nord, sempre favorito dai Savoia e dai governi del Regno d'Italia.

Con Fanfani la Dc cambia volto

A Napoli De Gasperi lasciò le consegne della Dc alla seconda generazione democristiana, quella di Iniziativa deemocratica, capeggiata da Fanfani. Ma proprio a poche settimane dalla scomparsa, De Gasperi incontrò la considerazione e il caloroso sostegno della terza generazione, quella che s'era di massima raccolta attorno alla neonata Base e che chiese, provocando l'ira di Fanfani, che De Gasperi fosse confermato Segretario del partito sino alla approvazione della Comunità europea di difesa, che una maggioranza massonico-comunista, coordinata da Mendes France, riuscì a bocciare alla Camera francese. Da quel momento la frattura tra Fanfani e i giovani democristiani, di massima dirigenti nazionali e periferici del movimento giovanile, divenne inevitabile. Il nuovo Segretario commissariò il movimento giovanile e, da quel momento, mai più un segretario iniziativista avrebbe goduto del sostegno dei giovani democristiani.
Fanfani, grande organizzatore, un decisionista che s'intendeva d'economia ma involontariamente si esponeva alle pressioni delle grandi corporazioni padronali, volle rapidamente adottare un nuovo modello di partito: abbandonò quello degasperiano del partito d'opinione di massa e adottò l'altro del grande partito di massa organizzato sin nelle più minuscole componenti sociali e nelle meno popolose località alpine e appenniniche. La Dc di Fanfani, in sostanza modellata a somiglianza del Pci, con una costruzione piramidale del consenso dal vertice alla periferia (e non viceversa), divenne un partito non solo centralizzato, ma burocratizzato: con una moltiplicazione di uffici e una quantità di funzionari che, chiamati per tenere in piedi una organizzazione mastodontica ma anche per aiutare le sezioni a curare bene la crescita di scrutatori e rappresentanti di lista, finirono col trasformarsi in delegati personali del Segretario nazionale e, al contempo, in aspiranti candidati a sindaco o a parlamentare. La fanfanizzazione della Dc venne giustificata con la ricerca di un nuovo 18 aprile che permettesse alla Dc di riconquistare il massimo potere e di non avere più bisogno di alleanze con partiti laici, ritenuti ora più inclini verso un anticlericalismo ottocentesco.
In verità il centrismo, causa gli opposti interessi del Partito liberale e dei socialdemocratici, dopo le elezioni amministrative del 1952 perse lo smalto di un tempo; cercò di salvarsi come coalizione attorno al cambiamento della legge elettorale; ma si scompose nel giudizio sul maggioritario e sulle prospettive future, non più soltanto di una coalizione, persistendo la conventio ad escludendum, che non prevedeva mai un governo in cui vi fossero anche dei comunisti. Il centrismo in realtà si frantumò come coalizione. Le scissioni più significative si ebbero tanto sul versante sinistro, con la presentazione di formazioni facenti capo a Ferruccio Parri e Tristano Codignola in funzione di una alternativa politica a sinistra; che sul centro destra, con la lista di Epicarmo Corbino, che contestava la politica economica di Vanoni e rivendicava maggiore liberismo. Ma un valore non solo simbolico l'ebbe la rottura dell'unanimismo comunista, con l'uscita dei già capi partigiani Aldo Cucchi e Valdo Magnani, sensibili al neutralismo jugoslavo di Tito, ora considerato un "pidoccchio" da Togliatti. Mentre il socialismo di Nenni, impostata la linea dell'autonomia mai più abbandonata, poneva in crisi definitiva il frontismo e stimolava la socialdemocrazia a imboccare la strada di una unificazione in dialettica permanente sia verso la Dc che verso il Pci. Giovanni Malagodi, sostenuto dall'intero schieramento padronale, conquistato facilmente il Partito liberale, s'impose di farne un quarto partito di massa, d'opinione e organizzato, ponendosi in concorrenza con la Dc fanfaniana, particolarmente sui temi dell'economia e della concezione dello Stato.
Il voto del 7 giugno sradicò la basi sociali dell' intero campo politico. Produsse una concorrenza sulla destra che la Dc non aveva in precedenza conosciuto in termini così marcati da metà anni Quaranta. Vide una grande spinta d'opinione a favore dell'alternativa e della unificazione socialista. Procurò nella Democrazia cristiana seri interrogativi sulla possibilità di tenere il perno centrista come una costante fissa e immodificabile. Indusse alcuni settori cattolici (come monsignor Carlo Colombo su "Vita e Pensiero" e i giovani basisti da poco emersi nell'arena democristiana) ad aprire una discussione sul centro-sinistra. Una espressione questa che, in verità, non era una invenzione del generoso Nicola Pistelli, fondatore del "San Marco", prima, della fiorentina "Politica" poi, bensì una riflessione che risaliva a De Gasperi ancor prima della liberazione del 25 aprile.
I partiti laici intermedi fra Dc e Pci, per forzare i rapporti con la nuova Dc fanfaniana, accentuarono toni e problemi civili anticlericali, più che anticattolici. Fanfani replicò irrobustendo come mai era accaduto dal 1942, cioè dalla fondazione del partito degasperiano, i rapporti con qualsivoglia organismo d'espressione cattolica verticista: dall'Uniiversità Cattolica di padre Gemelli, per decenni distintosi per il suo corporativismo che aveva favorito la politica economica fascista e la mediazione decisiva dello Stato nei contrasti interni fra datori di lavoro e prestatori d'opera; ai capi delle partecipazioni statali risalenti ai primi anni Trenta e dimostratesi indispensabili per il salvataggio dell' industria nazionale; all'associazionismo cattolico (laureati cattolici, insegnanti medi, maestri elementari); alla burocrazia di Stato, che venne considerata una componente essenziale della lunga marcia fanfaniana verso un nuovo 18 aprile mai concretamente intravisto.
Tutte le forze che, al IV congresso di Napoli, avevano dissentito dalla marcia a passi forzati di Iniziativa democratica ed erano rimasti ai margini nella vita della Dc, si coalizzarono, un anno dopo, nelle elezioni presidenziali, per impedire l'elezione di Merzagora, candidato di Fanfani, a capo dello Stato. Una concentrazione di parlamentari che andavano da Andreotti a Gonella sino alla sinistra basista, con una tattica studiata a tavolino, portò al Quirinale Giovanni Gronchi, Presidente della Camera coi voti dei socialisti e delle destre non attirate dal malagodismo. Gronchi capo dello Stato significava ridimensionamento dei progetti cesaristi di Iniziativa democratica. Ma non in astratto. Poiché Gronchi, sin dal suo messaggio alle Camere dopo l'elezione, si presentò come l'uomo che avrebbe guardato con interesse ai principali problemi nazionali ed internazionali; non avrebbe fatto ulteriori concessioni ad un centrismo battuto dagli elettori; non avrebbe accettato la logica ferrea di una guerra fredda che, ferma ad una tregua armata, era sempre sull'orlo di una deflagrazione nucleare. Gronchi fece così, della politica estera italiana, non un fortino nelle mani degli ambasciatori, ma una questione che andava totalmente ribaltata, riportandola alle concezioni sovranazionali sturziane e degasperiane: Ritorno alle origini fu lo slogan felice che Gronchi adottò prima a Napoli, dove perse per 59 mila voti la battaglia per l'introduzione della proporzionale nella Dc per l'elezione degli organi centrali e periferici; quindi nel paese, affermando che l'Italia non era una piccola nazione, ma una prestigiosa penisola mediterranea strategica nei rapporti fra i grandi blocchi e poteva operare per la pace piuttosto che per una guerra fredda permanente.

La divaricazione fra Piazza del Gesù e Quirinale

La divaricazione fra il Quirinale e Piazza del Gesù si perpetuò sia nella gestione fanfaniana che in quella morotea-segniana successiva. Gronchi era un europeista convinto; aveva sempre condiviso la linea di De Gasperi della necessità di una unità europea che garantisse equilibri pacifici fra Francia e Germania, nemici tradizionali tra loro. Anche sulla questione della Ced era stato molto critico verso Mendes France. Ma proprio per la specificità strategica dell'Italia nel Mediterraneo, Gronchi era del parere che i governi italiani dovessero costruire una partnership vera con gli Stati Uniti; e non farsi dettare i propri comportamenti dalla ambasciatrice a Roma Clara Luce, consorte d'un magnate dell'industria editoriale statunitense; e, contemporaneamente dovesse ristabilire un contatto con quei milioni di connazionali, emigrati nell' America Latina e in altri continenti, non tramutandosi in clochard ma rivelandosi grandi capitani d'industria orgogliosi d'essere italiani od' origine italiana.
Al V congresso di Trento dell'ottobre 1956 la Dc era un partito totalmente diverso da quello degasperiano. Iniziativa democratica dominava in ogni angolino sperduto del territorio, dove si trovava sempre un maestrino osannante Fanfani, il suo attivismo, invidiante la sua straordinaria capacità e dedizione al lavoro politico e s'atteggiava a presentarsi come un Fanfani in miniatura. Il culto della personalità s'era infiltrato in un grande partito dove invece, con De Gasperi, la libertà d'opinione era accettata e gradita, purché si mantenesse nei limiti del rispetto delle persone e dei diritti della maggioranza ad avere l'ultima parola.
L'abbandono del centrismo e la scelta della ricerca ossessiva di un grande recupero elettorale, considerate le difficoltà degli antichi alleati di centro, aveva trasformato il governo, ora affidato ad Antonio Segni (il quale si considerava il nuovo grande vecchio della Dc, erede di De Gasperi per via della riforma agraria e collettore di tutte le istanze provenienti da una variegata Iniziativa democratica culturalmente non uniforme), in una sede esclusiva di decisioni: con un Parlamento che votava senza perdersi in tante discussioni; e con un Quirinale che veniva considerato come disturbatore ma anche come impassibile sabotatore della volontà ferrea del Presidente del consiglio coadiuvato dal Segretario del partito.
Segni era convinto spettasse al governo plasmare lo Stato a propria somiglianza e concentrare in sé i poteri istituzionali, secondo una logica di tipo giolittiano che obbligava a sostenere l'esecutivo in Parlamento, quali che fossero gli orientamenti dei singoli deputati e dei gruppi parlamentari. Fanfani pensava che competesse al partito, espressione di coaguli di rappresentanze popolari, orientare le politiche economiche, sociali e imprenditoriali le più diverse, ma coordinate dalla segreteria democristiana. In questo consisteva l'accusa di corporativismo che veniva rivolta a Fanfani, fra l'altro studioso autorevole di Giuseppe Toniolo. Né Segni, né Fanfani riconoscevano un sistema politico diarchico. Ed entrambi respingevano l'idea che il Quirinale potesse rivendicare una parola equilibratrice fra partiti, governo, parlamento e popolo sovrano.
La Dc era più che mai una federazione di correnti. La prima a costituirsi dopo l'uscita di Dossetti dal partito e dalla vita politica, era stata Iniziativa democratica: da Napoli una supercorrente nella quale confluivano una serie infinita di suggestioni settoriali e territoriali. A Napoli Gronchi non aveva presentato una propria lista e i gronchiani si erano dispersi. Era comparsa Primavera di Andreotti, che non osò presentarsi come erede di De Gasperi, ma lo lasciava credere; anche se, in fondo, era sostanzialmente un gruppo a fondamento regionalistico: il Lazio. Poi c'erano i sindacalisti, di massima non in contrasto coi governi a guida democristiana. Infine i basisti, nati nel settembre 1953, senza un leader di peso ma con una politica rivolta al centro-sinistra, a una collaborazione democratica col socialismo autonomista.
La Dc era perciò un insieme politicamente disarmonico, ma capace di raccogliere costantemente vasti consensi popolari. Era considerata un partito che, a causa delle sue numerose correnti, teneva immobile un nuovo processo riformistico. La verità era che non la sola Dc, ma tutti i partiti, ad eccezione del Pci, dove vigeva la regola del centralismo democratico (cioè del capo che dettava la linea, la modificava e ribaltava a proprio piacimento consentendo a qualche dissenziente di prendere la parola in senso diverso ma non trasmettendone una formulazione esterna), erano composti di correnti l'una contro l'altra armata. Di specifico la Dc aveva che, ancora dai tempi di De Gasperi, al proprio interno, quasi ovunque, vedeva imporsi personalità che si presentavano come "uomini delle tre tessere" (quella della Dc, l'altra del sindacato, l'ultima delle Acli). Costoro in ogni sede ripetevano una propria personale visione della politica e dell'economia, suscitando irritazione nelle correnti vere e proprie e una confusione poco felice nel partito. Quando poi quelle personalità ricoprivano anche una carica istituzionale (parlamentare o di amministratore locale), era inevitabile che si scadesse o nel più vacuo uniformismo (che non costituiva mai un segno di unità), o si traduceva in un mero rivendicazionismo: contraddittorio, incomprensibile, fuorviante e, in definitiva, non concorrente alla identificazione di una linea politica chiara.
A Trento Iniziativa democratica si presentò con tutto il suo apparato burocratico dotato di potere impositivo urtante e persino settario. Le minoranze erano poco più che tollerate. Il gruppo dirigente continuava a parlare di neocentrismo o di "apertura a noi stessi" dal sapore più clericale che politico. Ma nella platea congressuale e, soprattutto, nei loggioni, c'erano anche rappresentanti di un elettorato escluso dalla costruzione di una linea politica. Comparve così un dissenso facente capo sia agli anziani (che avevano concertato un anno prima l'elezione di Gronchi), sia ai giovani (di massima basisti), che chiedevano a gran voce un nuovo corso che fosse davvero inedito e nel solco della tradizione degasperiana della politica delle alleanze.
Insorse così a Trento uno scambio di riconoscimenti fra la prima generazione democristiana di origine sturziana e degasperiana e la terza generazione, che pretendeva il superamento degli errori cattolici degli anni Venti; la liquidazione reale della contrapposizione fra guelfi e ghibellini; e che, per sintetizzare il complesso di tali orientamenti gridavano a gran voce: "viva i popolari", implicante un "abbasso i fanfaniani".
Trento fece emergere, dalle votazioni per l'elezione del Consiglio nazionale, uno scontro durissimo per la conquista del più alto numero di voti, fra il Segretario del partito e il Presidente del consiglio. Prevalse quest'ultimo, per la prima volta ridimensionando il potere assoluto del segretario. Ma vide anche trionfare la minoranza dei giovani basisti che, grazie ad una intesa tecnica con gli aclisti di Livio Labor e dei sindacalisti milanesi Alessandro Butté e Vittorino Colombo, riuscirono a presentare anche una lista di parlamentari (che non avevano, essendo nati politicamente dopo il 7 giugno 1953), riuscendo per la prima volta a entrare in Consiglio nazionale con cinque loro esponenti che, di lì a non molto, sarebbero giunti al vertice del partito.     La rottura tra Fanfani e Segni, già palesatasi con lo scrutinio, spinse il Segretario a premere sul partito perché il governo procedesse non come se la Dc non esistesse o fosse cosa propria, ma si raccordasse con Piazza del Gesù sui principali nodi: anzitutto la politica estera, essendo entrati in una fase di distensione obbligata fra i due blocchi, dopo due eventi pericolosissimi che avevano rischiato di fare scoppiare una terza guerra mondiale. Le truppe sovietiche avevano occupato Budapest e spodestato, assassinandolo, il capo del comunismo ungherese che perseguiva una politica autonoma da Mosca. Il canale di Suez era stato bombardato da aerei anglofrancesi con l'aperto dissenso degli americani; mentre il governo di Roma si era affrettato ad inviare in Sicilia il grosso delle proprie forze armate, comprese le reclute dell'ultima leva. Fortunatamente i due eventi militari si neutralizzarono l'un l'altro e gli americani evitarono di intervenire nell'Est europeo, contemporaneamente imponendo il ritorno agli equilibri di Yalta: che gli anglofrancesi rispettarono, l'Unione Sovietica no.
Ma Segni si era troppo esposto a favore dei bombardamenti in Egitto, provocando sdegno nella diplomazia italiana, da tempo impegnata in senso europeistico e alla ricerca di una partnership con gli Stati Uniti che non avesse il più lontano sentore di subordinazione dell'Italia al Pentagono. Fanfani ebbe buon gioco a biasimare tanto l'intervento sovietico in Ungheria che il bombardamento aereo di Suez e, fra i diplomatici, presero ad agitarsi i cosiddetti "Mau Mau", cioè ambasciatori e consoli più vicini a Fanfani ma anche a Gronchi, che avevano stigmatizzato tanto l'espansionismo sovietico che il neocolonialismo anglofrancese.
Il governo Segni cominciò a vacillare, sino a perdere il sostegno parlamentare di repubblicani, socialdemocratici e liberali. Sempre più indotti, questi ultimi, a propugnare, con Malagodi, una alternativa di destra democratica al monocolore democristiano; e, con Reale e Saragat, una alternativa di centro-sinistra che consentisse al Psi di rendersi finalmente concretamente autonomo dal Pci. Segni si dimise, la Dc non riuscì (anzi non volle) a formare un governo di coalizione e diede vita ad un monocolore Zoli, già capo partigiano, che passò in Parlamento coi voti determinanti dei missini. Zoli rifiutò quei voti, ma non fece cambiare idea ai partiti laici; finendo col restare a gestire gli ultimi mesi che mancavano alla fine della II legislatura e decidendo, quando parlava alle Camere, di voltare le spalle ai banchi di destra, dove sedevano i missini che continuavano a votarlo.
Al Consiglio nazionale di Vallombrosa del luglio 1957, convocato come da statuto per valutare la chiusura della crisi ministeriale, Fanfani non si limitò a registrare gli ultimi caotici avvenimenti. A sorpresa, facendo riferimento a quanto accadeva in Europa, segnatamente nella Germania Occidentale, dove era lecita la collaborazione fra democristiani e socialdemocratici, lasciò intendere che la Dc non potesse continuare a sostenere monocolori sperimentali che la logoravano e facevano dimenticare il principio delle alleanze democratiche vigenti al tempo di De Gasperi. Come atto di buona volontà, decise di porre fine alla direzione monocratica, cioè di soli iniziati visti; e di invitarvi i rappresentanti delle minoranze di Trento. In direzione entrarono così Granelli per la Base, Mario Toros per i Sindacalisti e Vittorio Cervone per Primavera, con una sorta di diritto di tribuna. Nel voto finale Fanfani incontrò il dissenso dei segniani, di Moro e altri dissenzienti di Iniziativa democratica, nonché dei capi storici della prima generazione: Gonella, Piccioni e Scelba. Nacque così il nucleo dal quale, nel febbraio 1959 sarebbe sorta la corrente dorotea, che spodestò Fanfani da Piazza del Gesù.

La rivolta dei dorotei

Con l'inedito dell'adesione dei rappresentanti delle correnti di opposizione e la defezione di rilevanti settori della supercorrente di Iniziativa democratica, Fanfani s'indirizzò verso le elezioni del III parlamento repubblicano con cipiglio e forte determinazione per la conquista di una nuova maggioranza assoluta: realisticamente improbabile. Le opposizioni parlamentari, baldanzose ma in forte crisi di consensi, lasciarono che il governo Zoli governasse da posizioni minoritarie; ma non disturbarono le fatiche di un galantuomo che non meritava d'essere accusato di sopravvivere coi voti del neofascisti. Copertosi nel partito con la partecipazione delle minoranze, Fanfani creò una commissione di 102 elementi autorevoli, esponenti di una infinità di componenti sociali nazionali, affidando le il compito di dare corso ad un Programma del 25 maggio, un catalogo delle questioni aperte in Italia cui le popolazioni mostravano essere sensibili. Ne affidò il coordinamento culturale a Gonella: se ne vide approvare il testo all'unanimità dal consiglio nazionale democristiano; quindi lo propagandò in tutte le piazze italiane come la summa massima di una politica sociale avanzata, non imitabile da alcun' altra forza politica.
Il Programma del 25 maggio non si allargava sul terreno delle alleanze politiche. Strattonato in campo cattolico dal cardinale Alfredo Ottaviani, che aveva minacciato l'impossibilità di conservare l'unità politica dei cattolici (in verità non esistita neppure il 18 aprile), Fanfani lanciò lo slogan "Progresso senza avventure". Confidava in una forte ripresa elettorale della Dc; che ci fu, restando però ben lontana dalla maggioranza assoluta. Fanfani non aveva mai affrontato nei comizi la questione dei rapporti coi socialisti. A urne chiuse, costituì un governo bicolore Dc-Psdi, assumendone la presidenza e scegliendo Giuseppe Saragat come vicepresidente, una scelta che parve provocatoria nei confronti del socialismo autonomista di Pietro Nenni.
Il II° governo Fanfani (il I°, un monocolore, era stato bocciato appena nato dal Parlamento, nel febbraio 1954) volle definirsi di centro-sinistra; creando molti equivoci circa un secondo tempo, a breve, che coinvolgesse anche il Psi. Si presentò in Parlamento deciso ad affrontare problemi irrisolti dai monocolori Segni e Zoli. Iniziò bene. Ma, appena affrontò la questione della regolarizzazione dei mercati generali, si vide boicottato all'interno della Dc e del Psdi da gruppi di centro-destra che, oggettivamente, facevano il gioco, per esempio, della mafia nel caso dei mercati di Palermo e di altre camarille consortili in altre città italiane. Non solo. Appena il bicolore Dc-Psdi prese a legiferare con apparente spirito riformatore, alla Regione Siciliana il democristiano di destra Silvio Milazzo si contrappose alla segreteria Fanfani che sollecitava la costituzione nell'isola di una maggioranza simile a quella stabilita a Roma; e, per contro, diede vita ad una maggioranza trasversale destra-sinistra, comprendente agrari, monarchici e comunisti, rompendo l'unità democristiana e dando vita ad una unione cristiano sociale in contrapposizione alla Dc. E con una tendenza secessionista, non molto dissimile dall' indipendentismo di Finocchiaro Aprile che, nel 1943-1945, con un proprio esercito (l'Avis, cui aveva collaborato anche il famoso bandito Giuliano), aveva spadroneggiato in Sicilia e con molta fatica era stato bloccato dalle scarse forze dell' ordine e, soprattutto, dalla ferma volontà della Dc di Salvatore Aldisio.
L'azione dei franchi tiratori a Roma, in oggettiva alleanza con Milazzo, creò seri problemi al bicolore Dc-Psdi, praticamente arrestandone i propositi riformatori. Con un viaggio in Francia e negli Stati Uniti Fanfani (che aveva tenuto per sé anche il portafoglio degli esteri) cercò di accreditarsi sul piano internazionale. Venne accusato anche di volere imitare in Italia, almeno di fatto, il presidenzialismo che il generale De Gaulle aveva appena impresso alla Francia costituendo la IV Repubblica.
Al Consiglio nazionale scudocrociato del 15-18 novembre 1958, Fanfani fu oggetto di un nuovo attacco di Scelba, concittadino di Milazzo, mentre nella Dc sorgeva una nuova corrente, Rinnovamento, che raggruppava aclisti, sindacalisti di Pastore e di Donat Cattin, nonché alcuni giovani come Bartolo Ciccardini che cercarono di contrastare, su suggerimento del vicesegretario del partito, Mariano Rumor, il deciso passo in avanti registrato nel paese con la nascita dell'agenzia Radar, unica portavoce della sinistra politica e unica voce apertamente schierata a favore di un incontro politico fra democristiani e socialisti autonomisti.
Il II° governo Fanfani, dopo pochi mesi di vita, non resse all'urto quotidiano dei franchi tiratori, palesemente annidati in maggioranza nella Dc, tra i vecchi destrorsi de La Vespa, ma sostanzialmente nella stessa corrente di Iniziativa democratica. Mentre al Congresso socialista di Napoli un ministro socialdemocratico in carica, Ezio Vigorelli, lasciava il Psdi per aderire al Psi di Nenni.
Quelle dimissioni costituirono la concausa della triplice rinuncia di Fanfani a Presidente del consiglio, Ministro degli esteri e Segretario democristiano. Verosimilmente Fanfani ricorse a tale misura estrema per mettere l'intera Dc, dirigenti e parlamentari, davanti alla responsabilità di stravolgere il Programma del 25 maggio, vedersi respinte le proprie dimissioni e riacquistare in breve tempo il pieno controllo sia del governo che del partito.
Il presidente Gronchi cercò di evitare una crisi di governo dopo appena sette mesi dalla sua costituzione: e provò a convincere Fanfani a ritirare le dimissioni. Fanfani non sentì ragioni, nella convinzione di potere avere ragione, in consiglio nazionale, dei rivoltosi. I quali, invece, si ritrovarono al collegio Santa Dorotea per dare vita ad una nuova maggioranza nella Dc. Il Consiglio nazionale della Domus Mariae si tramutò in un seggio elettorale per un referendum sulla persona del segretario dimissionario. Forte del sostegno di Giorgio La Pira e dei giovani basisti (critici verso la formula di governo, ma contrari ad una defenestrazione anonima del segretario), Fanfani era convinto di poter riprendere il controllo della Dc. Non andò così. Ai Dorotei si aggiunsero tutte le destre, ufficiali, ufficiose, interne ed esterne, che posero in minoranza Fanfani, giudicarono pericolosa l'apertura di credito fatta ai socialisti e imposero una svolta a destra a favore di un nuovo governo Segni: che definivano centrista, ma era totalmente di centrodestra, dal momento che venne accolto con molto gaudio da destra democristiana e cattolica, liberali, monarchici e missini, ribaltando completamente le stesse indicazioni elettorali del 25 maggio. Per qualche tempo, Fanfani si ritirò negandosi a qualsiasi contatto anche coi suoi migliori amici.

L'avvento di Moro alla segreteria

Il dominio fanfaniano sulla Dc era durato meno di cinque anni. Aveva inciso profondamente nella struttura del partito, introducendo in parlamento nuove leve. Ma si era in breve tempo passati dalla scarsa libertà nel partito e nei gruppi, alla anarchia più totale. Pareva che la rottura dei dorotei potesse tramutarsi nella nascita di un secondo partito cattolico. In questo senso soffiava molto il milazzismo. Che, dopo essere stato incoraggiato dall' opposizione antifanfaniana, fu però abbandonato dai dorotei, mentre l'esperienza siciliana venne accolta e protetta dal Pci di Emanuele Macaluso in Sicilia e di Palmiro Togliatti a Roma. Sino ad essere assunto come modello di politica nazionale da un Pci che lavorava palesemente contro l'autonomismo socialista e contro il rapporto fra Psi e sinistra democristiana politica, prospettando coalizioni eterogenee di governo centrale in esclusiva funzione antidemocristiana. Più tardi Giulio Andreotti, tra i vincitori morali e politici della Domus Mariae, avrebbe parlato di "guerra di liberazione dalla Dc".
Ormai la Dc dipendeva da Antonio Segni; che influenzava aspiranti ministri e candidati alla segreteria democristiana. Caduto Fanfani, occorreva sostituirlo formalmente. Nessuno dei più autorevoli esponenti dorotei osava avanzare la propria candidatura. Pensò di risolvere la questione Paolo Emilio Taviani (egli stesso candidato alla segreteria, ma intenzionato a raccoglierla più avanti, in tempi più tranquilli), suggerendo il nome di Aldo Moro; e presentando il deputato pugliese come un tipo innocuo; privo di una personalità netta; certamente un democratico gradito anche dai clericali; senza una clientela territoriale che potesse rafforzarne l'ambizione.
Il dominio di Moro sulla Dc e nella vita del paese sarebbe durato ben oltre lo spazio d'un mattino. Come Segretario si esaurì nel dicembre 1963 con la costituzione del I° governo Moro. Come riferimento principale del paese, si estese sino alla sua morte, avvenuta per mano delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978.
Assieme all'amico Tommaso Morlino, Moro era stato tra gli organizzatori, a Vallombrosa, del dissenso antifanfaniano. Ma non intendeva farsi complice del cesarismo di Segni; né del lassismo che rischiava di scoppiare in una Dc incardinata su un governo di centro-destra e su una indisciplina totale, che consentiva un rafforzamento e non un indebolimento del milazzismo. Contro le attese dei dorotei che lo avevano portato a Piazza del Gesù come un re travicello nelle mani di una corte rissosa, Moro si rivelò subito come uomo di polso.
Organizzò senza indugio due convegni organizzativi dei segretari regionali e provinciali del partito, uno a Messina l'altro a Bologna, per assegnare alla Dc una linea politica propria, non sdraiata al servizio del governo Segni. E dialogò particolarmente con Ciriaco De Mita, astro nascente della Base, dandogli ragione, salvo che nella tempistica, sulla ineluttabilità di un confronto aperto coi socialisti.
A Messina, l'uomo di Andreotti, Franco Evangelisti, minacciò la nascita di un secondo partito cattolico, che potesse, o no, assorbire la diaspora milazziana. A Bologna, la stragrande maggioranza dei convegnisti si pronunciò per il pronto recupero del centro-sinistra, anche se soltanto nella versione bicolore ch'era stata di Fanfani, e comunque con giudizi molto critici verso l'esperimento a destra di Segni.
Gli scelbiani crearono una propria corrente, Centrismo popolare, distinguendosi dai dorotei. I fanfaniani diedero vita a Nuove Cronache, con chiaro riferimento alle "Cronache Sociali" di Dossetti sulle quali sia Fanfani che La Pira, specie col Discorso sulla povera gente e sulla politica del lavoro, avevano contestato il peso dei liberali nel concerto centrista. I coltivatori diretti consolidarono la propria rappresentanza corporativa molto pesante nei gruppi parlamentari. Moro, iniziò a valorizzare un nucleo di stretti collaboratori, accettando che fossero definiti "morotei" pur rimanendo partecipi della maggioranza dorotea. Al VII congresso di Firenze dell'ottobre 1959 la Dc si presentò rigidamente spaccata a metà, tra fautori del ritorno di Fanfani e sostenitori della diarchia Moro-Segni, parecchio contrastata da Centrismo popolare e Primavera.
Ad agosto era scomparso Luigi Sturzo. Nel commemorarlo al teatro Eliseo di Roma, Moro lo presentò come l'inventore dell'autonomismo politico dei cattolici italiani; come il fondatore di un partito popolare che aveva rifiutato i veti di Giolitti e il fascismo di Mussolini; come colui che aveva obbedito, in quanto sacerdote, all' ordine papale di allestire un listone anticomunista per le elezioni del Campidoglio dell'aprile 1952 ma che, in sostanza, aveva parteggiato per De Gasperi e Scelba. I quali erano riusciti a presentare liste di partito; a rimanere attestati sull'alleanza coi partiti laici democratici e a vincere le elezioni: contro il Pci e alleati; e contro i neo fascisti e alleati.
Al teatro La Pergola di Firenze, Moro confermò la medesima linea. Dialogò vistosamente con De Mita. Ma polemizzò con le destre interne. Rivendicò una prospettiva democristiana non chiusa al socialismo democratico. Lanciò un appello unitario. Alla conta dei conti, Firenze confermò la spaccatura in due della Dc. Fanfani perse sul filo di lana per la defezione di alcuni delegati della coltivatori diretti di Paolo Bonomi; e perché Centrismo popolare e Primavera, pur avendo presentato liste di propri candidati, riversarono i loro suffragi sulle liste Moro-Segni, determinandone il successo finale. Le minoranze politiche scomparvero dalla geografia del consiglio nazionale. Moro riuscì a recuperarle contribuendo a far eleggere in Cn dai gruppi parlamentari i massimi esponenti delle correnti escluse.
Il Comitato centrale del Psi dell'8 febbraio 1960 si pronunciò in senso favorevole ad una linea di centro-sinistra, nelle forme possibili. Il IX congresso nazionale del Pci scelse invece il milazzismo come politica organica funzionale alla estromissione della Dc dal potere centrale. I liberali di Malagodi, comprese le crescenti difficoltà del monocolore Segni in mano ai neo fascisti, nel loro consiglio nazionale chiesero alla Dc un rapido mutamento di rotta della politica governativa, sollecitando un vago ritorno al centrismo. Moro si affrettò a parlare di una cauta formula per un centrosinistra sperimentale assieme a repubblicani e socialdemocratici, lasciando ai socialisti la responsabilità di lasciarlo vivere in parlamento. Il PIi decise di uscire dalla maggioranza di Segni, decretandone la caduta.
Moro era prudente perché consapevole di non avere dietro di sé una vera maggioranza scudocrociata che accettasse la "cauta sperimentazione". Tuttavia convinse Segni a non opporsi al tentativo. L'ex presidente del consiglio accolse la linea Moro: purché la Dc indicasse lui come successore di se stesso. La direzione democristiana, sentiti gli altri partiti coinvolgibili nella nuova maggioranza parlamentare, diede via libera ad un tripartito Dc-Psdi-Pri presieduto da Segni. Gronchi accettò la proposta della Dc e incaricò Segni di dare vita ad un nuovo governo con una nuova maggioranza parlamentare. Nessuno nella Dc parlava contro la cauta sperimentazione. Fortissimo era, invece, lo sbarramento mediatico contro tale ipotesi, su suggestione della stampa cattolica. Inopinatamente, mentre si era in attesa del varo del nuovo ministero con programma reso noto sui punti più qualificanti e non coincidenti con quelli del defunto monocolore, Segni, con una improvvisa dichiarazione, comunicò che rinunciava all'incarico. Lasciando la Dc attonita e ammutolita e i partiti laici irritatissimi sia con Segni che con la Dc.

L'avventura tambroniana

Il passo indietro di Segni suscitò il caos nella Dc. Moro conosceva bene la vastità dell' antisocialismo serpeggiante nei gruppi parlamentari; in parecchie segreterie provinciali sulle quali era costruita la sua stessa segreteria; in importanti settori della Chiesa, oltre che negli organismi cattolici guidati da assistenti ecclesiastici ancora fedeli al pontificato pacelliano, conclusosi da tempo. Lo stesso nuovo papa, Giovanni XXIII, apprezzava moltissimo Moro, più la sua serietà intellettuale che l'arditezza politica. Tutti i capi dorotei evitavano di esporsi. Era inimmaginabile che il segretario potesse rivolgersi al suo antagonista Fanfani.
Così Moro, d'intesa coi capigruppo e nell'assenso silenzioso e obbligato della direzione, propose al capo dello Stato il nome di Fernando Tambroni, secondo della lista di Nuove Cronache al congresso di Firenze e, anni prima, organizzatore a Pesaro, assieme al giovane Arnaldo Forlani, di un convegno di "Politica Sociale", il periodico di Giovanni Gronchi. Moro fece uscire dal cilindro il nome di Tambroni, sicuro che sarebbe stato accolto con grande favore da Gronchi.
Il presidente della repubblica, in realtà, non si fidava molto di Tambroni; non gli era per nulla garbato l'intervento tambroniano alla Pergola, eccessivamente infarcito di richiami clericali gratuiti; un discorso ch' era invece piaciuto alla destra economica e cattolica, perché nient'affatto aperto verso l' autonomismo socialista. Gronchi, che era stato il primo, autorevole, democristiano favorevole ad un rapporto coi socialisti e che, proprio per tale tendenza era stato eletto al vertice dello Stato, nel corso delle ultime consultazioni aveva palesemente apprezzato la disponibilità di Saragat e di Reale ad un patto di centro-sinistra con la Dc, sperava di potersi intestare l'approdo di un franco dialogo fra democristiani e socialisti. E di concludere il settennato, dopo il bicolore Fanfani e un tripartito Segni, con un governo nel quale potessero essere presenti anche ministri socialisti, magari con Nenni vicepresidente.
Avendogli la Dc proposto il nome di Tambroni, e non avendo né il Pri né il Psdi avanzato alcun nome per la Presidenza del consiglio, Gronchi non poté che assegnare il mandato all'esponente indicatogli dalla Dc: ma per un governo limitato alla approvazione dei bilanci e, quindi, dalla durata breve, circoscritta a poco più di tre mesi. Ricevuto l'incarico, Tambroni assicurò il capo dello Stato, incredulo, che avrebbe costituito un governo monocolore democristiano come chiestogli dalla Dc. Ma aggiungendo che si sentiva sicuro di non essere minimamente condizionato dai voti che monarchici e neofascisti s'erano affrettati ad anticipare ai media, poiché la sinistra del Psi in visita collettiva in Cina, non sarebbe rientrata in Italia prima del voto di fiducia alla camera, così facendo abbassare il quorum di maggioranza.
Gronchi si disse perplesso circa un simile calcolo. Raccomandò caldamente a Tambroni di non illudersi sull'assenza della sinistra socialista. Di dare vita ad un governo politicamente neutro. E a limitarsi al mandato che la Dc, e non lui, gli aveva indicato, limitato nel ruolo e nello spazio temporale. In ogni caso, quasi impose a Tambroni di non confondersi nella maniera più assoluta coi neofascisti.
Tambroni parve convinto. Costituì in poche ore un monocolore. Sciolse la riserva tradizionale e si presentò a Montecitorio con un programma più ampio rispetto al mandato della Dc e del Presidente della repubblica. Dopo un dibattito nel quale emersero l'ostilità delle sinistre, dei partiti di centro-sinistra e degli stessi liberali, era inevitabile che monarchici e neo fascisti si mobilitassero al massimo per entrare nel grande gioco della maggioranza, condizionandola. Quel voto determinò dapprima le dimissioni di Bo, Pastore e Sullo e, di seguito, di altri otto ministri fanfaniani e dorotei, che obbligarono Tambroni a ripresentarsi al Quirinale dimissionario.
Allora Moro ritenne inevitabile rivolgersi a Fanfani e ai capi dei due partiti laici di centro-sinistra inattesamente messi alla porta da Segni il 19 marzo, non facendosi alcuna illusione circa un eventuale tripartito. Ma Fanfani, Saragat e Ugo La Malfa s'incontrarono privatamente dichiarandosi disponibili a non recepire le preclusioni nei loro confronti. e a concordare con la Dc un tripartito di centro-sinistra: lasciando ai socialisti di scegliere se continuare a subire l'egemonia del Pci o, in qualche modo, cominciare a reinserirsi nel gioco democratico.
La direzione democristiana venne così riconvocata da Moro per valutare se e come dar vita ad un tripartito a guida Fanfani. La direzione si espresse a favore di tale soluzione e Fanfani cominciò a formulare un programma di governo coerente con la ultime decisioni congressuali, ma anche col Programma del 25 maggio che aveva portato la Dc ad una indubbia vittoria elettorale nel 1958. Quando tutto pareva andare per il meglio, un oscuro parlamentare di Taranto diichiarò la propria obiezione di coscienza di fronte alla prospettiva che il tripartito potesse essere, anche indirettamente, votato dal Psi. Di conserva, il capogruppo della camera, Luigi Gui, diramò una nota per comunicare all'universo mondo che egli non era in grado di assicurare la compattezza dei deputati scudocrociati. Immediatamente Fanfani prese atto dell'opposizione di Gui e dignitosamente tornò nella sua Arezzo.
Se Moro non controllava i suoi gruppi parlamentari, era chiaro che la Dc era preda di un complesso dissolutivo serio. Col ritiro di Fanfani e la proclamazione di altre obiezioni di coscienza, la segreteria democristiana si rese conto che la sua stessa influenza e autorevolezza stava rapidamente scemando. Ormai ne parlava apertamente con gli amici più stretti: Morlino, Salvi, Salizzoni. Quest'ultimo si confidava anche con Giovanni Galloni, amico dai tempi giovanili di Bologna, ora ritenuto il leader della Base ascoltato anche al Quirinale.
Ascoltando il parere di costituzionalisti come Leopoldo Elia, proprio essendo si confermato che fosse in atto nel mondo cattolico e nella curia romana un'offensiva contro di lui, Moro suggerì a Gronchi di rinviare Tambroni al Senato per accertare se, in quel ramo del parlamento, esistesse una maggioranza in grado di fare approvare i bilanci dei vari dicasteri. Il Presidente della repubblica, infuriato con la Dc e con Tambroni, non ricevendo diverse indicazioni da alcun partito, si trovò obbligato a spedire Tambroni al Senato, mentre i media mettevano sotto accusa il segretario democristiano. A Palazzo Madama Tambroni raccolse la stessa maggioranza della camera, con lo stesso governo di soli democristiani, ad eccezione di Bo, Pastore e Sullo ch'erano stati sostituiti da parlamentari iniziativisti.
I capi della destra presero a irridere il segretario scudocrociato, sobillati anche da cardinali che parlavano come fossero capi corrente della Dc. A metà maggio Moro convocò il consiglio nazionale, come da statuto. Giunse a Palazzo Rospigliosi come l'imputato numero 1 che non aveva più capacità d'analisi e si ostinava a rimanere imperterrito al suo posto senza più alcun sostegno che non fosse quello, soltanto morale, della sinistra del partito e l'altro, privato, dei suoi collaboratori più stretti.
La relazione introduttiva di Moro, benché ricca di spiegazioni date con contorte circonlocuzioni, non suggestionò quasi nessuno. Segni si sentiva spavaldamente come l'unico dominatore di un partito incautamente messo nelle mani di un incantatore bizantino. La stampa cattolica si sbizzarriva nell'attribuire a Moro ogni nefandezza politica immaginabile. Il dibattito si fece feroce e incandescente. Le scarse truppe della sinistra democristiana si contrapposero argomentatamente agli attacchi delle correnti di destra. Emersero nella discussione due linee uguali e contrarie, ma disuguali quanto a rapporto di forza. Nei corridoi di Palazzo Rospigliosi e nel giardino antistante non si parlava d'altro che di imminente spaccatura in due della Dc. In ogni caso, Moro era dato come sicuro dimissionario, se voleva evitare l'onta della sfiducia. I lavori del Cn si protrassero oltre ogni previsione organizzativa. Ma era in corso una battaglia per la stessa sopravvivenza del partito scudocrociato.
Alla chiusura del dibattito, tre giorni dopo il termine prefissato, la opinione prevalente, nella Dc e sui media, era che Moro avrebbe rassegnato il suo mandato. Invece, con uno slancio d'orgoglio inatteso, Moro svolse la replica non difendendosi ma attaccando. Giudicò, quello di Tambroni, un governo "di necessità". Rivendicò l'autonomia della politica, la natura popolare della Dc, il suo orientamento antitotalitario, e perciò anche antifascista. Si disse convinto della necessità dell'unità democristiana per conservare la democrazia in Italia. Si dichiarò pronto a ricreare il ripristino della politica delle alleanze il prima possibile.
Tambroni si sentì pago del potere ottenuto, e preferì una linea di basso profilo per non incappare in incidenti di percorso e superare i termini temporali che gli erano stati concessi. Non avvertì il bisogno di consultarsi con Gronchi. Poi, non proprio per caso, scoppiò il "caso Genova", dovuto alla convocazione del congresso nazionale del Msi in una città medaglia d'oro della resistenza. Il prefetto, per tenersi in equilibrio, suggerì lo spostamento del congresso in un altro teatro genovese, non troppo in prossimità del monumento ai caduti partigiani. Almirante non ascoltò ragioni e confermò la scelta iniziale. Scoppiarono tumulti che le forze dell' ordine non riuscirono a contenere. Se il movimento sociale palesemente provocava, anche le associazioni partigiane non furono da meno, esportando la guerriglia urbana in molte altre città, con morti e feriti a Palermo, Roma, soprattutto Reggio Emilia. Si rischiò la guerra civile. Tambroni negava che fosse il governo in qualche modo responsabile della degenerazione della lotta politica. E, quindi, resistette ad ogni pressione della stessa segreteria scudocrociata perché togliesse il disturbo quanto prima. Finché non giunse un atto di alto valore democratico: la proposta da parte del segretario liberale Malagodi e dell'ex ministro dell'interno democristiano Mario Scelba, di una "tregua politica", appoggiata da tutti i partiti ad eccezione delle due estreme: neofascisti e comunisti. Piuttosto che essere destituito, Tambroni rassegnò le dimissioni del suo governo: dopo l'approvazione dei bilanci così da avere qualcosa all'attivo, oltre i disagi pubblici, parlamentari e sociali, che aveva creato.

Le convergenze parallele preparatorie del centro-sinistra

Cacciato Tambroni, il club dei democratici si ricompattò. Facendo risorgere Fanfani, sino a pochi mesi prima considerato l'avversario più tenace del laicismo esasperato e di una democristianità subalterna ai poteri forti del paese. L'incanto delle "convergenze parallele", un ossimoro attribuito a Moro ma in realtà dovuto a Tommaso Morlino, aveva fatto il miracolo di conciliare le cosiddette "mezze ali", la monarchica e la socialista, entrambe rimaste in piedi nell' arena politica a contendersi le amorevoli opzioni di una Dc interessata a tenersi aperti, come diceva Andreotti, "due forni", sul fianco destro e su quello sinistro.
Fanfani fu coerente. Recuperò la politica del fare, che gli era più congeniale. Ripristinò la legalità democratica. Predispose una legge elettorale proporzionale (e non più maggioritaria come accadeva dai due turni del 1951-'52) per l'elezione dei consigli provinciali, così da consentire al Psi di presentare liste e programmi differenziati rispetto a quelli comunisti. Il ricorso, per la prima volta, alle Tribune Politiche televisive, servì a Fanfani per dimostrare che, volendolo, si potevano realizzare anche riforme difficili, ma non impossibili. Però, nella campagna elettorale amministrativa del novembre 1960, Fanfani fece ricorso ad una definizione - opposti estremismi -, che sarebbe entrata nel lessico politico venendo intesa in varie accezioni e adoperata a seconda delle diverse opportunità politiche.
Il governo delle "convergenze parallele", dopo pochi mesi si rivelò più pencolante verso i socialisti che verso i monarchici. Giunte di centro-sinistra sorsero a Milano, Genova e Firenze. Mesi dopo il centro-sinistra designò il nuovo corso della politica siciliana. Il clima politico rasserenato indusse Moro ad organizzare a San Pellegrino il primo convegno di studi: dove non c'era niente da votare né posti da distribuire fra le correnti, ma solo una assunzione di responsabilità individuale e collettiva. Il convegno "ideologico", voluto fortemente da Moro, tese a rafforzare le convinzioni di democrazia partecipata che circolavano nella Dc ma rimanendo ai margini delle discussioni interne. Il convegno valse come preparatorio del nuovo congresso nazionale della Dc, dopo quello dell'ottobre 1959.

Napoli '62 e vicende connesse

L'VIII congresso democristiano si svolse a Napoli a fine gennaio 1962. Ora Moro era tornato in sella al posto di comando e di regia del partito. E si consentì una relazione fiume di sei ore e mezza suddivisa in due parti, che venne giudicata "ecumenica", in sintonia con l'indizione del Concilio Vaticano II. L'assise vide sfilare alla tribuna tutti i massimi esponenti delle correnti, ma senza più i tradizionali scontri.
L'incantesimo di una ritrovata unità era dovuto all'accordo riservato sottoscritto fra Moro e Segni, secondo cui i dorotei acconsentivano alla prosecuzione della sperimentazione di centro-sinistra (ed, eventualmente, alla stipulazione di una alleanza organica col Psi) a condizione che, nelle imminenti elezioni presidenziali, la Dc votasse compatta il nome di Antonio Segni, preoccupandosi anche di ricercare, a favore di questi, consensi sulla destra parlamentare.
Per dare un segno tangibile di unità, Moro concordò coi capicorrente di presentare liste limitate di candidati per un numero complessivo di candidature pari al numero dei seggi disponibili in consiglio nazionale. In tal modo ogni corrente poté scegliersi preventivamente i propri prescelti, mentre l'assieme delle liste equivaleva ad un listone unitario suddiviso secondo i voti congressuali posseduti dalle singole correnti. L'unica possibilità rimessa ai singoli delegati fu quella del voto di preferenza e l'eventuale utilizzo del panachage, cioè della possibilità di votare contemporaneamente per i propri candidati ma anche per candidati presenti in altre liste. Si ricorresse o meno al panachage, gli eleggibili erano tutti nominati in partenza. E questo sistema venne rumorosamente contestato da alcuni delegati, come Wladimiro Dorigo, Pierantonio Graziani e Nicola Pistelli, che abbandonarono Napoli rifiutandosi di votare.
Appena concluso l'VIII congresso di Napoli, si passò alle implicazioni del nuovo corso. Per un lato risultante dalla maturazione politica che buona parte del gruppo dirigente scudocrociato mostrò di avere recepito più o meno convintamente. Dall' altro riverberantesi sulla vita parlamentare e nel consolidamento delle alleanze con la nascita del IV governo Fanfani, basato su una formula dei centro-sinistra cosiddetto "pulito", cioè coi socialisti in maggioranza ma non nell'esecutivo.
Eppure il IV governo Fanfani fu il più operoso poiché fu messo dinanzi alla richiesta perentoria del Psi che, con Riccardo Lombardi, pretese l'immediato varo della nazionalizzazione delle fonti di energia. Una misura che, nei suoi effetti pratici, pagò a prezzi altissimi gli espropri delle centrali; impegnò spese organizzative e realizzative faraoniche; e riversò sulla massa degli utenti sia i costi reali delle trasformazioni di gestioni e reti, che quelli della non gradita propaganda in appoggio ad una riforma con più dissensi che consensi nell' opinione pubblica e nelle stesse masse elettorali filogovernative.
Poi vennero le elezioni presidenziali. Per le quali Moro aveva contratto debiti d'onore. Dorotei e destra democristiana, cementate dalla sconfitta oggettiva registrata al congresso di Napoli e dalla nascita del nuovo governo Fanfani, i cui programmi venivano verificati da incontri quotidiani fra esperti economici di quattro (e non solo dei tre partiti di governo) chiedevano apertamente sul nome di Segni i voti liberali, monarchici e missini. Cioè cercavano consensi nei gruppi opposti a quelli che sorreggevano il nuovo corso democristiano. Segni, alla fine, ce la fece a insediarsi al Quirinale: ma coi voti di un centrodestra che faceva da palese contraltare al centro-sinistra governativo.
In quelle elezioni non mancarono pesanti pressioni ecclesiastiche a sostegno di Segni e piuttosto polemiche verso Fanfani. L'esito della battaglia parlamentare non fu comunque di buon auspicio per il futuro del centro-sinistra.
Fanfani reagì attaccando i critici interni al suo governo. Al consiglio nazionale del 3-5 luglio 1962 sostenne che troppi ostacoli erano ancora frapposti all' azione dell' esecutivo da dissidenze parlamentari e politiche provenienti dall'associazionismo cattolico. La sinistre di Base e di Forze Sociali si posero a fianco del governo, ma polemizzarono sul nuovo integrismo che rischiava di riprendere piede nella Dc. Il II convegno di San Pellegrino, tutto spostato sul versante ideologico e culturale, attenuò i contrasti, ma mise indirettamente in discussione la forma-partito in atto sin dal 1954. Cioè una Dc ramificata sin nei più piccoli interessi economici settoriali che facevano complessivamente crescere gruppi di potere locali culturalmente spenti, sindacalisticamente agguerriti ed economicamente impegnati in una politica della spesa generosa per non risultare seconda a quella dei socialisti.
In fine 1962 la Dc cominciò a parlare di "accordo di legislatura", di leggi -quadro per passare finalmente all' ordinamento regionale, mentre il ministro dei lavori pubblici Fiorentino Sullo, avvalendosi del consiglio della più avanzata cultura urbanistica, presentò un disegno di legge sul diritto di superficie, dalla quale, nell' aprile 1963, si dissociarono apertamente "Il Popolo", quindi il presidente del consiglio F anfani. La massiccia propaganda contraria dei liberali e della quasi totalità dei media risultò determinante nel bocciare nelle urne il progetto riformatore urbanistico. La Dc perse una montagna di voti a favore del Pci. Ma le perdite scudocrociate non derivarono dal ceto medio urbano, bensì dai coltivatori diretti di Bonomi: che votarono comunista per ripicca, immaginando che un esito fallimentare della segreteria Moro e della presidenza Fanfani potesse riportare gli interessi dell' agricoltura in trasformazione strutturale al centro del dibattito politico.

La IV legislatura

Le elezioni politiche del 28 aprile 1963, negative per la Dc ma anche per l'esperienza tripartita del governo, sollevarono le ire di Saragat. Che, come già dopo la sconfitta del 7 giugno 1953, parlò di "errori di direzione politica", ponendo sul banco degli accusati Moro, ma soprattutto Fanfani e La Malfa. Segni cercò di forzare la situazione e di portare Moro a Palazzo Chigi nell' intento di liberare la Dc dalla egemonia morotea, consegnandola agli amici e sodali dorotei. Moro non si lasciò imbrigliare in giochi di corto respiro. Rifiutò l'invito a guidare un governo politico in piena bagarre fra i partiti di centro-sinistra. Optò per un governo di tregua e di decantazione, cui fu dato il nome di "balneare", impegnando la responsabilità e l'abilità di Giovanni Leone, presidente della camera.
Intanto Fanfani si era dimesso proprio quando a Roma giungeva il presidente degli Stati Uniti, il cattolico John Kennedy, in visita da papa Roncalli. Questi, con la sua enciclica Pacem in terris, aveva sollecitato le grandi potenze nucleari a disarmare onde assicurare equilibri pacifici ai vari continenti. Persino il papa venne posto in stato d'accusa in ambienti curiali e integralisti cattolici per la dura sconfitta democristiana del 28 aprile. L'improvvisa morte di Giovanni XXIII lasciò un forte rimpianto, anche in parte degli elettori di sinistra e parve preludere a reazioni anticlericali. L' elezione al soglio di Pietro di Paolo VI venne accompagnata invece dalla apertura della II sezione del Concilio Vaticano II, la più importante quanto a discussioni, ripensamenti, propositi riformatori della Chiesa e delle sue svariate diramazioni.
A settembre vi fu il III convegno di studi di San Pellegrino, con una relazione di Leopoldo Elia sui partiti politici e relazioni di Franco Maria Malfatti e Flaminio Piccoli, fra loro dissimili. Emersero nell' occasione le prime proposte di finanziamento pubblico dei partiti onde contenere la pressione dei grandi gruppi capitalistici sul processo formativo della classe politica e sulle segnalazioni preferenziali dei candidati parlamentari da essi meglio malleabili.
Ai primi di ottobre si cominciò a parlare di governo organico di centro-sinistra, cioè di ingresso dei socialisti nell'esecutivo. Si trattava di portare alle logiche conseguenze operative la politica approvata al congresso di Napoli. Ma un consiglio nazionale tenutosi il 7 novembre evidenziò che le correnti di destra erano sempre meno convinte di avviare l'alleanza coi socialisti; non intendevano recedere dalle loro posizioni negative ove buona parte dei comandi governativi fossero assegnati a socialisti, così mirando a riequilibrare verso destra ciò che si concedeva al Psi sulla sinistra. La maggioranza doromorotea propose invece un programma di legislatura sul quale potessero convenire anche le destre democristiane.
A dicembre Moro riuscì a dar vita al suo I governo di centro-sinistra organico, vedendo però subito esplodere : 1) un dissenso aperto di Scelba Scalfaro e Gonella, i quali minacciarono di abbandonare la Dc e dare vita ad un secondo partito cattolico; solo l'intervento pesante de "L'Osservatore Romano e l'assicurazione della attribuzione di dicasteri li dissuase dal progetto scissionistico; 2) la dissidenza aperta della sinistra socialista di Lelio Basso, Dario Valori e Tullio Vecchietti, che non sentirono ragioni, diedero vita ad un nuovo partito, il Psiup, filocomunista, e votarono contro Moro; 3) la mancata partecipazione al governo organico di centro-sinistra di personalità come Fanfani, Sullo, Riccardo Lombardi e Ugo La Malfa, che erano stati, negli ultimi anni, i protagonisti del dibattito sul nuovo corso.

Saragat al Quirinale

L'avvicinarsi di un ciclo economico negativo, avvertitosi proprio nei giorni in cui si andava a costituire il I governo Moro, attenuò, sino a spegnerli, gli entusiasmi per la politica di centro-sinistra. Le nazionalizzazioni non avevano migliorato la qualità degli impianti produttivi e dei servizi degli utenti, ma avevano comportato spese pubbliche di gestione che si riverberarono negativamente sui conti dello Stato. I dorotei avevano molto da ridire anche sulle gestioni e sui costi della giunte locali di centro-sinistra. Saragat e Malagodi protestarono violentemente contro l'intenzione dei nuovi alleati di voler procedere alla attuazione delle regioni a statuto ordinario. Soprattutto, i dorotei non intendevano lasciare ancora Moro alla segreteria democristiana e si agitavano moltissimo per recuperarla a sé, puntando su Mariano Rumor come nuovo segretario.
A fine gennaio 1964 Rumor riuscì ad insediarsi a Piazza del Gesù fra i distinguo delle sinistre democristiane, che propugnavano la costituzione di una maggioranza interna di centro-sinistra rispecchiante nella Dc la stessa formula di governo appena adottata. Ma quando si trattò d'inserire qualche elemento delle sinistre interne negli organigrammi di potere, i dorotei diventarono improvvisamente sordi e muti, quanto furono ciarlieri nel presentare la nuova segreteria come una concentrazione omogenea di quadri centrali e locali di indiscusso prestigio.
Moro non era per niente tranquillo. Il 29 febbraio lanciò un appello televisivo agli italiani annunciando provvedimenti congiunturali che riequilibrassero i conti pubblici. Così aprendo un dibattito sulla politica dei redditi che spostò totalmente la discussione politica dalla cultura politica e delle alleanze fra avversari ai temi dell' economia. A fine maggio un memorandum di Emilio Colombo (originato da pressioni del governatore della Banca d'Italia Guido Carli) fece comprendere come si fosse messa in moto una pressione di poteri forti, estranei alla politica, che intendevano frenare il centro-sinistra e, probabilmente, farlo tramontare.
La messa in minoranza del governo alla camera su una questione marginale come i contributi ai nidi d'infanzia privati, indusse Moro, dopo pochi mesi di vita, a rassegnare le dimissioni del governo, obbligando i nemici esterni (finanzieri e Quirinale) a venire allo scoperto. Flaminio Piccoli, nuovo capo dei dorotei, prese apertamente a discorrere di fine del "centro-sinistra romantico", tenendosi ambiguo sulla proposta politica.
Uno scontro violentissimo al Quirinale fra Segni, da una parte, e Moro e Saragat dall'altra, nel corso del quale il capo dello Stato ebbe un malore serio, un ictus, rese noto a italiani e stranieri che il centro-sinistra era sottoposto a pressioni fortissime perché abbandonasse la partita politica. Malgrado le resistenze di Colombo e di Piccoli, Moro il 22 luglio riuscì a varare il suo II ministero, stessa formula del precedente, non riuscendo tuttavia a ridimensionare le tensioni interne all'esecutivo fra politici e tecnici, cioè fra ministri che seguivano una strategia collaborativa e ministri economici che attingevano all'esterno i loro orientamenti, alterando l'indirizzo generale del governo.
Segni, venne costretto a passare la mano al presidente del senato Cesare Merzagora causa impedimento a svolgere le sue funzioni. Sopraggiunsero la morte di Palmiro Togliatti in Crimea e la diffusione di un suo Memoriale scritto a Yalta. La successiva caduta di Kruscev animò il dibattito politico italiano sulla successione di Segni al Quirinale e quello internazionale sulla successione di Kruscev al Cremlino, con evidenti mutamenti di strategia nell'internazionalismo comunista.
A metà settembre si svolse a Roma il IX congresso della Dc, dove i dorotei e i sindacalisti impedirono a Pistelli di parlare della successione a Segni indicando il nome di Fanfani, avanzato già sulla fiorentina "Politica". Fanfani, irritato coi dorotei, che non intendevano riconoscere ad altri la cessione di quote di potere, parlò di "reversibilità del centro-sinistra", mettendo a rumore la politica italiana ed europea. Nacque allora Impegno democratico, la nuova supercorrente dorotea, fredda nei confronti di Moro, ostile verso Fanfani. Di ritorno dal congresso della Dc, Nicola Pistelli perse la vita nei pressi di Pisa. Obbligato dai medici a dimettersi, Segni lasciò il Quirinale, aprendo praticamente la battaglia presidenziale. Nella quale Fanfani e Pastore si presentarono candidati creando scompiglio nella Dc. Mentre Saragat, presentatosi come candidato non sgradito ai comunisti (che lo appoggiarono in cambio della preventiva concessione della grazia al pluriassassino Francesco Moranino), riuscì ad ottenere il sostegno di Moro e di succedere a Segni al Quirinale, con la dissidenza delle sinistre democristiane.

L'elezione di Saragat provocò conseguenze nella politica italiana. Moro venne costretto ad effettuare un rimpasto di governo, sostituendo Saragat con Fanfani a ministro degli esteri, mentre Andreotti tornò a parlare di unità della Dc, muovendo critiche a Nuove Cronache e ai sindacalisti di Giulio Pastore per la loro disubbidienza. Il Pci presentò una mozione di sfiducia al II governo Moro rimpastato, che non sortì alcun effetto. Piuttosto, al centro del dibattito politico entrò prepotentemente, nei primi mesi del 1965, la questione del Vietnam, che polarizzò le discussioni italiane e mondiali sul Sud Est asiatico, spostando l'attenzione delle grandi potenze dall'Atlantico al Pacifico.
Nel marzo 1965 il consiglio nazionale democristiano prese in esame il piano economico quinquennale 1965-1969, con un ulteriore spostamento dell' attenzione verso i temi economici rispetto a quelli politici tradizionali. I sindacati presero a discutere di incompatibilità fra cariche sindacali e rappresentanze parlamentari, aprendo un ampio dibattito nelle grandi confederazioni sulla programmazione economica. A fine maggio Guido Carli, nella relazione annuale della Banca d'Italia, parlò di integrazione dell'economia a livello transnazionale e di un ruolo competitivo da conquistare sui mercati mondiali. In effetti cominciarono ad evidenziarsi sintomi di ripresa economica. Prese ad enuclearsi una filosofia orientativa dello sviluppo.
Screzi insorsero fra Nenni e "Il Popolo", coi dorotei che vi soffiarono sopra per accentuare le indubbie differenze strategiche correnti fra socialisti e democristiani.

La preparazione dell'alternanza socialdemocratica

Saragat utilizzò il proprio settennato al Quirinale per suggerire, organizzare e dominare un processo politico volto a realizzare in Italia una alternanza socialdemocratica al potere democristiano. La Dc rumoriana reagì predisponendo una assemblea nazionale, svoltasi a cavallo fra l'ottobre e il novembre 1965 a Sorrento, intesa ad aggiornare i programmi del partito ai nuovi tempi: rivedere il modello di partito in atto dal 1954, tenendo conto dei nuovi fermenti in corso nel mondo in contrasto con la militarizzazione degli equilibri internazionali; osservare con attenzione le inquietudini che si manifestavano nel mondo cattolico nelle pieghe del Concilio Vaticano II.
Le elezioni sarde del 13 giugno ' 65 costituirono l' occasione di verifica di una unificazione fra Psdi e Psi, chiaramente respinta dai comunisti e osservata con scetticismo dai democristiani. Le cui correnti si attenevano ad una unità provvisoria, anche per non farsi trovare impreparate nel caso l'unificazione socialista si realizzasse. Ma anche fra altre formazioni laiche ci si interrogava sui disegni strategici di Saragat e ci si orientava per condividerli in qualche modo, ovvero per seguirli con scetticismo e spirito critico. La Malfa, da parte sua, si dimise da presidente della commissione bilancio della camera preoccupato dell' eccessivo lassismo di socialisti e democristiani, prodighi nella spesa, avari nei sacrifici. Le minoranze trasversali che avevano a cuore la stabilità del centro-sinistra si soffermarono sulla necessità di una intermediazione politica dell' economia, se si voleva utilizzare al meglio la seconda parte della legislatura.
Fanfani accettò di diventare presidente della XX assemblea dell' Onu. La nomina rimise lo statista aretino al centro delle discussioni internazionali sul Vietnam; e la politica estera italiana tornò al centro del dibattito nazionale. Il II governo Moro si dimise, ponendo in difficoltà i dorotei che non erano pronti a sostituirlo con propri esponenti. Saragat reincaricò Moro per un III governo a sua guida, la cui gestione fu parecchio travagliata, non essendo per nulla scontato il ripristino di una coalizione di centro-sinistra.
Dinanzi alla prospettiva di una riunificazione socialista, "Mondo Operaio" aprì una discussione nella quale emersero posizioni non univoche ma contrastanti. La Dc si rivelò in difficoltà a posizionarsi verso la strategia marciante della unificazione socialista. Al consiglio nazionale dell' aprile 1966 emersero elementi di chiarificazione interna, non limitate alla richiesta di una nuova maggioranza da tempo richiesta dalla sinistra del partito, ma concernenti temi ordinamentali.
Regioni e riforma dello Stato secondo le proposte classiche dei popolari e del dibattito svolto si alla costituente ricomparvero nel dibattito delle correnti scudocrociate. La politica nazionale fu peraltro scossa dalla morte del giovane Paolo Rossi all'università di Roma, sintomo della ripresa dell'estremismo politico: cui si replicò riconfermando l'antifascismo repubblicano, ma non approfondendo i problemi del disagio giovanile e femminile. Anche le amministrative parziali del 12 giugno 1966 costituirono occasione di verifica per la politica di centro-sinistra del governo Moro-Nenni. Ma gli avvenimenti tragici del Vietnam, con le notizie provenienti dagli Stati Uniti circa le rivolte pacifiste degli universitari degli atenei più prestigiosi d'America, indirizzarono l'attenzione generale verso la politica estera italiana. Sostenuto da Moro per il principio costituzionale consuetudinario inglese che il governo copre sempre la corona, Saragat parlò di "scelta di civiltà" in corso nel Vietnam. Le sinistre democristiane, compatte, respinsero lo scandaloso giudizio del capo dello Stato. Che non se ne diede per inteso e affrettò i tempi della riunificazione socialista, dando vita al Psu (partito socialista unificato).
Il consiglio democristiano (aprile 1967) valutò con temperata sufficienza i rapporti della Dc col Psu, mentre sempre più massicciamente l'evolversi delle trattative per il Vietnam si riverberava sulla politica italiana. Nella tarda estate si svolse a Lucca un convegno di studio della Dc con l'emersione di un tentativo di proposta circa i rapporti fra politica e cultura e l'esaltazione del ruolo dell' intellettuale come azione militante e "non organica", come invece pretendeva la visione comunista della società e dello Stato.
Nel novembre 1967 si svolse a Milano il X congresso nazionale della Dc, dove si delinearono nuove posizioni: il ridimensionamento del coacervo doroteo; l'enuc1eazione, per la prima volta in maniera ufficiale, di una corrente morotea in dissenso con la dorotea; una forte affermazione delle sinistre democristiane; la nascita della corrente dei "pontieri" di Paolo Emilio Taviani; il "rimescolamento delle carte" suggerito da Flaminio Piccoli; una ricaduta negativa dei lavori congressuali sul governo Moro-Nenni, avviandolo verso una crisi formale.
A fine ' 67 "La Civiltà Cattolica" pubblicò una nota sulla "cancerizzazione corporativa degli interessi", che praticamente metteva in discussione non soltanto una pratica politica alla quale non sfuggivano né i democristiani, né i socialisti, né tanto meno i comunisti, bensì gli stessi impianti culturali di Giuseppe Toniolo, sui quali era incardinata la cultura economica cattolica, da Camaldoli '43 in poi. Sul periodico dei gesuiti traspariva la propensione per una politica di austerità e dei redditi, in realtà, in quella fase, particolarmente propugnata dal laico La Malfa. Ne derivò, non a caso, un contrasto fra il leader repubblicano e le sinistre democristiane (la sindacale in particolare) rispetto alla linea dell' assistenzialismo , intrinseca al centro sinistra realizzato.
Si era chiaramente entrati in una seconda crisi del centro-sinistra. Lo scoppio della contestazione giovanile ed operaia indusse settori consistenti della Dc a riflettere sul riformismo concentrato sull' esistente e scarsamente attento alle nuove leve e alle nuove ondate culturali.
Le elezioni politiche del maggio 1968 furono illuminanti. Il Psu ne sortì ridimensionato, mettendo seriamente in difficoltà la strategia saragatiana della alternanza alla Dc. I dirigenti socialisti unificati si trovarono dinanzi alla "sorpresa" elettorale negativa, qualcuno rendendosi conto ch'essa era dovuta anche al rinvio delle riforme e al conseguente spazio che si era lasciato alla propaganda comunista. Moro accentuò la sua autonomia dai dorotei, i quali cercavano di allontanare da sé l'accusa di essere considerati i principali responsabili di uno Stato ancora sensibile agli interessi delle corporazioni e molto meno alla cultura dell' evoluzione e della protesta giovanile: che invocava lavoro e non ideologismi ottocenteschi o superati dalla realtà mondiale. Non avendo pronta una alternativa a Moro, i dorotei ripiegarono, per la seconda volta in apertura di legislatura, ad un II governo "balneare" di Leone. Che valse a dare comunque un esecutivo transitorio al paese per superare l'estate.
Quel ripiegamento, però, segnò anche l'inizio di una progressiva agonia del centro-sinistra.


 
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